Gerusalemme aspetta Trump e si prepara a un’ondata violenze

cropped-6540367129_d78bc85156_o.jpgAll’inizio di questa settimana, Netanyahu ha convocato una speciale riunione sui preparativi di sicurezza da mettere in campo nel momento in cui il presidente Donald Trump annuncerà lo spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Uno strappo nei confronti di tutta la comunità internazionale che riconosce la parte Est della Città Santa come futura capitale dello stato di Palestina. Una mossa che minaccia di riaccendere tensioni e violenze da parte degli arabi, e forse non solo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Erano presenti il ministro della Difesa, quello degli Interni, il capo della polizia, dei servizi segreti interni. Stando a quanto trapelato, Netanyahu nel corso della riunione ha detto che Israele non ha notizie certe su quando Trump annuncerà il trasferimento dell’ambasciata, che potrebbe avvenire in qualunque momento dopo l’insediamento e che bisogna quindi tenersi pronti.    

   L’esercito, la polizia e lo Shin Bet, la sicurezza interna, non hanno informazioni specifiche su possibili attacchi, ma hanno presentato al premier Netanyahu e ai suoi ministri diversi scenari di violenza nel momento in cui Trump darà l’annuncio, che sarà “molto, molto presto” secondo i suoi più stretti collaboratori. Fra l’altro a Gerusalemme il Consolato americano ha recentemente acquistato una vasta area (non distante dagli attuali uffici consolari nel quartiere di Arnona) che i ben informati dicono sia destinata alla costruzione della nuova ambasciata nella Città Santa.

   Due settimane fa, l’Anp ha lanciato una campagna mediatica contro lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. Il presidente Abu Mazen ha detto verranno utilizzati i canali diplomatici e legali perché avrebbe un effetto devastante sul processo di pace, ma è chiaro che l’Anp e il suo presidente non sono in grado di controllare la piazza palestinese che contesta apertamente questa leadership al minimo della sua credibilità. 

   Anche diversi Paesi arabi stanno lavorando contro questo trasferimento. In questi giorni diversi ambasciatori mediorientali a Washington si sono incontrati con i consiglieri di Trump avvertendoli delle conseguenze. Il ministro giordano Mohammed al-Momani ha detto che lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme sarebbe l’attraversamento di una linea rossa e avrebbe “conseguenze catastrofiche non solo in Cisgiordania e forse anche in Israele per sé, ma in tutta la regione e un profondo impatto sulla disponibilità di Giordania ed Egitto, che non si sentirebbero più impegnati e solidali con Israele come lo sono oggi”. 

L’Eni, al Sissi e il caso Regeni

Giovedì scorso al Cairo c’è stato un lungo incontro fra l’Amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi e il presidente egiziano Mohammed Abdel Fattah al Sissi nell’elegante palazzo di Heliopolis. Sappiamo che sono in ballo molti denari fra Italia e Egitto relativi allo sfruttamento del gigantesco campo gasiero di Zohar scoperto dall’Eni nel 2015 al largo delle coste di Alessandria. Con una stima di 850 miliardi di metri cubi di gas, Zohar è il più grande giacimento mai scoperto nel Mediterraneo. Lo sfruttamento  di questa immensa risorsa energetica metterà al sicuro l’Egitto dai problemi energetici per almeno un secolo e porterà buone royalties nei bilanci della nostra Eni.

  L’Eni ha annunciato Descalzi al presidente egiziano aumenterà i propri investimenti nella ricerca a 3,5 miliardi dollari nel 2017. Ma soprattutto ha spiegato che l’Egitto è attualmente  in cima alla lista dei 53 Paesi del portafoglio di investimenti dell’Eni, secondo quanto ha scritto “Al Ahram” venerdì scorso.

   Ci sarebbe da complimentarsi per una nuova affermazione del talento e professionalità italiana, della capacità delle nostre società di farsi largo in un mercato internazionale – specie quello energetico – dove la lotta fra le company è veramente all’ultimo sangue. Se il Paese non fosse l’Egitto, Paese da dove l’Italia l’anno scorso ha ritirato il proprio ambasciatore per protesta contro le “bugie” sul rapimento e la morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano scomparso alla fine di gennaio 2016, il cui corpo brutalmente torturato venne scoperto il 3 febbraio dell’anno scorso.

   In un anno – segnato da ricostruzioni false e  presunti colpevoli di comodo – modestissimi passi in avanti sono stati fatti nelle indagini e il livello di collaborazione fra la Procura di Roma e quella del Cairo che indaga è ancora balbettante. Sappiamo chi l’ha denunciato alla polizia come spia, il capo del sindacato degli ambulanti del Cairo che invece Giulio voleva usare come fonte per la sua ricerca sui cambiamenti sociali in Egitto dopo la caduta del raìs Mubarak. Ma poco altro.

     Lo scorso febbraio dalle colonne di “Repubblica”, mentre ero al Cairo per seguire il caso di Giulio, ho scritto che certamente un’ottima arma di pressione sull’Egitto sarebbe stato il congelamento di questo contratto di cui allora già si parlava: si firmerà quando verrà presentata una verità possibile su Giulio, su come sono andate le cose in quelle drammatiche settimane un anno fa, chi sono i colpevoli e come verranno processati. Perché è vero che “pecunia non olet” – come dicevano i latini – ma è anche vero che in Italia c’è bisogno di uno scatto di orgoglio.

     Il premier di allora Renzi, finse di non capire. Il nuovo primo ministro Paolo Gentiloni (che all’epoca era ministro degli Esteri e quindi conosce perfettamente il dossier Regeni) farà diversamente o continueremo in questa rappresentazione da teatro kabuki?

Ma soprattutto quante linee di politica estera ci sono? Siamo sicuri che governo e Eni stanno andando nella stessa direzione?

    

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L’incontro al Sissi-Descalzi (foto da Al Ahram)

Il processo simbolo dell’Israele d’oggi

A volte il destino di un singolo individuo riflette la complessità di un’intera società e catturare in maniera spasmodica l’attenzione dell’opinione pubblica. Il caso del soldato israeliano Elor Azaria è un esempio perfetto. Dopo mesi di prove e audizioni di testimoni, il tribunale militare di Jaffa stamane lo ha ritenuto colpevole di omicidio colposo. Azaria lo scorso marzo a Hebron uccise un palestinese gravemente ferito a terra, subito dopo un attacco al coltello di due palestinesi contro un posto di blocco. Il primo assalitore venne ucciso sul colpo, l’altro giaceva a terra ferito e in condizioni di non nuocere. Il 19enne sottufficiale delle IDF si avvicinò, armò il suo fucile e sparò un colpo alla testa del palestinese ferito a terra.

  L’intera drammatica sequenza venne filmata da un gruppo di volontari pacifisti israeliani dell’ONG B’tselem (http://www.btselem.org/firearms 20160324_soldier_executes_palestinian_attacker_in_hebron)

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Il sottufficiale Azaria ieri durante il processo (foto da Haaretz)

e messa in rete.

   Un atto d’accusa netto e chiaro ma  la decisione dei giudici era attesa perché il caso ha preso in questi mesi una svolta politica e simbolica eccezionale. Perché non è semplicemente il caso di un giovane e inesperto soldato che ha agito in stato “confusionale” come ha sostenuto la sua difesa. Il processo è diventato il simbolo della lotta tra la destra e la sinistra, l’esercito e i coloni, il capo di stato maggiore e il ministro della Difesa Moshe Yaalon (lui stesso ex generale ed capo di stato maggiore) che si è dimesso da un lato, e il primo ministro Benjamin Netanyahu e alcuni membri del gabinetto dall’altro che al caso hanno dato una lettura politica, nel principio che il terrorista o presunto tale è meglio morto che vivo.

   Il capo delle IDF Gadi Eisenkot ha criticato gli sforzi per raffigurare Elor Azaria, come un “ragazzino confuso”, dicendo che un tale approccio sminuisce l’esercito. Le IDF si fanno vanto di avere uno dei maggior standard etici delle Forze armate nel mondo. Noi, ha spiegato Eisenkot, “chiediamo che i nostri soldati seguano i valori delle IDF: per difendere il paese con fedeltà e amore, trattare le persone con rispetto e a perseverare nella missione. Questi non sono solo slogan, ma i nostri valori per preservare la forza e la giustezza delle IDF”.

   Stamattina il giudice, il colonnello Maya Heller, ha respinto sistematicamente tutti i punti di difesa di Azaria. La presidente del collegio giudicante ha ritenuto che il palestinese già ferito è stato ucciso “inutilmente” e Azaria è stato ritenuto colpevole di omicidio colposo. La sentenza definitiva sarà pronunciata dalla stessa Corte militare di Jaffa entro quattro settimane e potrebbe condannare il giovane militare di leva a venti anni di carcere. Adesso, se come dice il ministro Naftali Bennett “Azaria non deve fare un solo giorno di prigione”, resta solo la grazia presidenziale. Il problema approderà dunque presto sulla scrivania del presidente Reuven Rivlin, un rispettato avvocato della destra liberista e garantista. Ma sono in molti adesso a chiedersi se saprà resistere alle pressioni del premier Benjamin Netanyahu.

Netanyahu, Obama e la 2334

Per il primo ministro Benjamin Netanyahu la posizione di Israele nel mondo è eccezionale e presto diventerà ancora migliore. E’ questa la convinzione che si nasconde dietro la serie di passaggi punitivi e drammatici che ha preso contro i 14 Paesi che hanno approvato la risoluzione contro gli insediamenti e l’occupazione di Gerusalemme Est, e chi come gli Stati Uniti a quel voto si è astenuto.

   Il voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 23 dicembre che ha condannato la colonizzazione di Israele è stato il terzo clamoroso schiaffo per Netanyahu. Ma questa volta la reazione del premier israeliano è stata feroce. Ha convocato gli ambasciatori dei 14 Paesi il giorno di Natale (pensate se un ambasciatore israeliano venisse convocato il giorno di Yom Kippur quali polemiche ne scaturirebbero). Ha annullato aiuti, cancellato inviti e visite, ha rifiutato di incontrarsi con i leader di Cina e Gran Bretagna. Poi non pago di aver personalmente espresso la sua opinione al telefono all’ambasciatore Usa a Tel Aviv, ha accusato il presidente Obama di collusione e tradimento.

    Non è stata una reazione a caldo. Lo scorso week end in una riunione con suoi fedelissimi Netanyahu non ha smesso questi toni estremi e ha annunciato che Israele è all’inizio di un grande cambiamento. Il voto al Consiglio di sicurezza “dimostrerà di essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, anzi è stato il punto di svolta che in realtà accelererà l’ascesa trionfale di Israele. E’ stato – ha spiegato – il canto del cigno del Vecchio Mondo che è prevenuto contro Israele. Ma ,“amici miei, stiamo entrando in una nuova era”. E in questo Nuovo Mondo tutte le nazioni avranno bisogno di ciò che solo lo Stato ebraico può offrire. Non è una minaccia di violenze. Piuttosto il modo di Netanyahu di avvertire le nazioni del mondo che non potranno più beneficiare di innovazioni dell’hi-tech israeliano così come delle sue competenze nella lotta al terrorismo e altre materie vitali nel mondo moderno – sui quali lo Stato ebraico non ha eguali –  se non cambiano il loro modello di voto su Israele.

Molti in Israele sostengono che la reazione di Netanyahu al voto dell’Onu sia stata sproporzionata. I meglio informati sostengono che la risposta di “King Bibi” è stata volutamente esagerata per mantenere le conseguenze del voto Onu in prima pagina e distogliere così l’attenzione dagli sviluppi di una indagine per corruzione, tangenti e truffa aggravata che lo vede direttamente coinvolto.

   Ma chi ha familiarità con Netanyahu conosce il posto che lui vede per Israele nel XXI° secolo e sa che queste manovre non sono destinate a oscurare i titoli dei giornali per un paio di giorni, ma sono parte integrante della sua politica estera. E’ certo che l’assistenza tecnica e di intelligence  sia più importante per il mondo che non la soluzione del problema palestinese. Ma sente anche che questo cambiamento non sarà rapido. E allora perché si scaglia così violentemente contro il presidente Obama che nelle sue ultime settimane di mandato potrebbe causare molti altri “danni ancora”? 

   Una parte della risposta è nella totale fiducia di Netanyahu nella posizione pro-Israele di Donald Trump. Per la prima volta, nei suoi diversi incarichi da premier, si trova a lavorare con un presidente repubblicano, che continua a ripetere che trasferirà l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, che ha nominato ebrei ortodossi che sostengono gli insediamenti in Cisgiordania, in posizioni chiave nei negoziati per il processo di pace. L’altra parte della risposta ha a che fare con il mantra di Netanyahu: Israele deve proiettare potenza e forza anche quando ha perso la battaglia.

  Ben presto saremo in grado di vedere se la profezia del premier su una nuova era fiorente di legami fra Israele e il resto del mondo si sta avverando. O se Israele, spinto in questa posizione innaturale nel confronto con gli altri Paesi, è destinato al crescente isolamento internazionale.