Green col kalashnikov

C’è una ONG libanese ambientalista che fa da scudo alle operazioni degli Hezbollah nel sud Libano. Israele, gli Stati Uniti ma anche alcuni in Libano accusano “Green Without Borders” di cooperare con il gruppo sciita sostenuto dall’Iran fingendo di fare operazioni per salvare l’ambiente proteggere le aree verdi del Libano e piantare alberi. Interventi di piantumazione che servono invece a nascondere attività militari, con avamposti – nella zona smilitarizzata tra i due Paesi – mascherati da container agricoli lungo il confine con Israele.

   “Green Without Borders” nega qualsiasi legame con Hezbollah, che afferma anche di non essere collegato al gruppo ambientalista. “Non siamo un braccio per nessuno”, dice il capo di GWB, Zouher Nahli. “Come associazione ambientalista lavoriamo con tutti e non siamo politicizzati”. I finanziamenti dell’organizzazione provengono dai Ministeri di Ambiente e Agricoltura, privati libanesi che si prendono cura dell’ambiente e dei comuni, principalmente nella parte orientale della valle della Bekaa e nel sud del Libano. Lui stesso è un dipendente del Ministero dell’Agricoltura. Da quando ha iniziato le operazioni nel 2009, il gruppo ha piantato circa 2 milioni di alberi.

   Israele e Hezbollah hanno combattuto diverse guerre negli ultimi decenni, l’ultima si è conclusa nell’agosto 2006. Il conflitto di 34 giorni ha ucciso 1.200 persone in Libano, per lo più civili, e 160 israeliani, per lo più soldati. Secondo la risoluzione Onu che ha posto fine a quella guerra quell’area di confine dovrebbe essere smilitarizzata sotto il controllo Onu con accesso solo ai contadini locali. In un rapporto di novembre l’Onu denuncia invece che in 16 siti lungo il confine con Israele sono stati allestiti container ed edifici prefabbricati, con contrassegni “Green Without Borders”. In diversi casi, alle pattuglie Onu è stato impedito da uomini armati di avvicinarsi a queste zone. L’esercito israeliano denuncia che questi avamposti sono usati da Hezbollah per raccogliere informazioni di intelligence e pianificare attacchi.

Cia e Mossad, quasi amici

Non è stato proprio un fulmine a ciel sereno l’inciampo del presidente americano Donald Trump sulle informazioni riservate riguardanti l’Isis raccontate al ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, alla vigilia del suo delicato viaggio in Medio Oriente e in Europa. Nello Studio Ovale il presidente avrebbe rivelato alcune informazioni “sensibili” che la Cia ha ricevuto qualche settimana fa dal Mossad israeliano, che riguardano fra l’altro la possibilità di usare laptop e i-pad come involucro per introdurre una bomba su un aereo di linea. Di qui il bando su questi oggetti messo dagli Usa lo scorso mese per i voli provenienti da 10 destinazioni mediorientali. E’ vero che tutti i protagonisti hanno in qualche modo smentito questa ricostruzione e che i rispettivi governi hanno minimizzato l’accaduto ma il mondo dell’intelligence – specie quella israeliano – è in subbuglio. Si può condividere un’informazione con un alleato strategico – come sono Israele e Stati Uniti – ma passare documenti sensibili a una “terza parte” come la Russia (alleata di Siria e Iran) ha molte implicazioni. L’alleanza non è a rischio ma stamane ben due Ramsad sono intervenuti pubblicamente sulla vicenda. Che due ex capi del Mossad affidino le loro opinioni a un giornale è cosa piuttosto inusuale, anche in Israele. Entrambi, il generale Danny Yatom (nella foto) e Shabtay Shavit, sostengono che l’alleanza con Washington non è certamente a rischio ma il Mossad “adesso ci penserà due volte prima di condividere informazioni sensibili con gli Usa”, e dovrà certamente riconsiderare “il livello della condivisione dei dati sensibili”.

  E’ di stamane la rivelazione di Al Jazeera che indica nel “Dairat al-Mukhabarat al-Ammah”  (Dipartimento Generale delle Informazioni), lo spionaggio della Giordania, come fonte di queste informazioni, arrivate al Mossad nel quadro della collaborazione anti-Isis, poi “girate” agli alleati americani e finite nel briefing quotidiano che la Cia fornisce al presidente.

Qualunque sia stata l’origine di queste informazioni, l’unica cosa certa è che la Fonte, l’infiltrato negli alti ranghi dell’Isis a Raqqa, adesso non solo è bruciata e ma dovrà anche essere esfiltrata da quel territorio molto rapidamente.

   Difficile non essere d’accordo con il commento del “New York Times” di oggi: “Trump è il presidente e ha il diritto legale di spifferare informazioni classificate, ma la sua ignoranza, vanità e stoltezza possono mettere in pericolo la nazione”, e forse non solo questa.

Danny Yatom

Tzippi Livni al Palazzo di Vetro Salam Fayyad in Libia

Si è compiaciuto oggi Netanyahu del veto posto dagli Usa alla nomina dell’economista Salam Fayyad, ex dirigente del Fondo monetario Internazionale ed ex premier palestinese, come inviato speciale per Onu in Libia, che prima del veto ordinato dal presidente Donald Trump aveva già ottenuto i 14 sì degli altri membri del Consiglio di Sicurezza Onu.

    Ma il nuovo segretario generale dell’Onu Antonio Guterres è fatto di una pasta diversa dal suo predecessore Ban ki-Moon. E dimostra di essere un bravo giocatore di scacchi.

   Sabato sera è cominciata a circolare la notizia in Israele di un prossimo incarico della signora Tzippi Livni, leader dell’opposizione, come vice-segretario generale dell’Onu. La più alta carica mai offerta a un cittadino israeliano nelle Nazioni Unite. La Livni e Guterres si sono già incontrati a New York la scorsa settimana.

  I ben informati sostengono che è in corso un braccio di ferro nei corridoi dell’Onu. Se gli Usa toglieranno il veto alla nomina di Salam Fayyad la strada della Livni (ottenuto il gradimento del Consiglio) sarebbe spianata. Spazi e ruoli si sono rimescolati nelle ultime elezioni in Israele e la signora Livni ne è uscita sconfitta. Ha fallito nel creare un alleanza “progressista” avviata con il Labour Party che comprendesse anche i centristi di Yesh Yatid di Yair Lapid. Per il suo partito – otto deputati alla Knesset – i consensi si sfarinano e il suo futuro politico immediato non appare così roseo. 

  Per la donna che un tempo fu paragonata a Golda Meir per il suo piglio, la sedia di vice-segretario generale sarebbe un’eccellente “escape” dalla vita politica israeliana. Le consentirebbe di maturare esperienze internazionali e alla fine del mandato Onu potrebbe concorrere per la presidenza e aspirare a diventare in Israele il primo capo di Stato donna. 

livni

Gerusalemme aspetta Trump e si prepara a un’ondata violenze

cropped-6540367129_d78bc85156_o.jpgAll’inizio di questa settimana, Netanyahu ha convocato una speciale riunione sui preparativi di sicurezza da mettere in campo nel momento in cui il presidente Donald Trump annuncerà lo spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Uno strappo nei confronti di tutta la comunità internazionale che riconosce la parte Est della Città Santa come futura capitale dello stato di Palestina. Una mossa che minaccia di riaccendere tensioni e violenze da parte degli arabi, e forse non solo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Erano presenti il ministro della Difesa, quello degli Interni, il capo della polizia, dei servizi segreti interni. Stando a quanto trapelato, Netanyahu nel corso della riunione ha detto che Israele non ha notizie certe su quando Trump annuncerà il trasferimento dell’ambasciata, che potrebbe avvenire in qualunque momento dopo l’insediamento e che bisogna quindi tenersi pronti.    

   L’esercito, la polizia e lo Shin Bet, la sicurezza interna, non hanno informazioni specifiche su possibili attacchi, ma hanno presentato al premier Netanyahu e ai suoi ministri diversi scenari di violenza nel momento in cui Trump darà l’annuncio, che sarà “molto, molto presto” secondo i suoi più stretti collaboratori. Fra l’altro a Gerusalemme il Consolato americano ha recentemente acquistato una vasta area (non distante dagli attuali uffici consolari nel quartiere di Arnona) che i ben informati dicono sia destinata alla costruzione della nuova ambasciata nella Città Santa.

   Due settimane fa, l’Anp ha lanciato una campagna mediatica contro lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. Il presidente Abu Mazen ha detto verranno utilizzati i canali diplomatici e legali perché avrebbe un effetto devastante sul processo di pace, ma è chiaro che l’Anp e il suo presidente non sono in grado di controllare la piazza palestinese che contesta apertamente questa leadership al minimo della sua credibilità. 

   Anche diversi Paesi arabi stanno lavorando contro questo trasferimento. In questi giorni diversi ambasciatori mediorientali a Washington si sono incontrati con i consiglieri di Trump avvertendoli delle conseguenze. Il ministro giordano Mohammed al-Momani ha detto che lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme sarebbe l’attraversamento di una linea rossa e avrebbe “conseguenze catastrofiche non solo in Cisgiordania e forse anche in Israele per sé, ma in tutta la regione e un profondo impatto sulla disponibilità di Giordania ed Egitto, che non si sentirebbero più impegnati e solidali con Israele come lo sono oggi”. 

Il processo simbolo dell’Israele d’oggi

A volte il destino di un singolo individuo riflette la complessità di un’intera società e catturare in maniera spasmodica l’attenzione dell’opinione pubblica. Il caso del soldato israeliano Elor Azaria è un esempio perfetto. Dopo mesi di prove e audizioni di testimoni, il tribunale militare di Jaffa stamane lo ha ritenuto colpevole di omicidio colposo. Azaria lo scorso marzo a Hebron uccise un palestinese gravemente ferito a terra, subito dopo un attacco al coltello di due palestinesi contro un posto di blocco. Il primo assalitore venne ucciso sul colpo, l’altro giaceva a terra ferito e in condizioni di non nuocere. Il 19enne sottufficiale delle IDF si avvicinò, armò il suo fucile e sparò un colpo alla testa del palestinese ferito a terra.

  L’intera drammatica sequenza venne filmata da un gruppo di volontari pacifisti israeliani dell’ONG B’tselem (http://www.btselem.org/firearms 20160324_soldier_executes_palestinian_attacker_in_hebron)

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Il sottufficiale Azaria ieri durante il processo (foto da Haaretz)

e messa in rete.

   Un atto d’accusa netto e chiaro ma  la decisione dei giudici era attesa perché il caso ha preso in questi mesi una svolta politica e simbolica eccezionale. Perché non è semplicemente il caso di un giovane e inesperto soldato che ha agito in stato “confusionale” come ha sostenuto la sua difesa. Il processo è diventato il simbolo della lotta tra la destra e la sinistra, l’esercito e i coloni, il capo di stato maggiore e il ministro della Difesa Moshe Yaalon (lui stesso ex generale ed capo di stato maggiore) che si è dimesso da un lato, e il primo ministro Benjamin Netanyahu e alcuni membri del gabinetto dall’altro che al caso hanno dato una lettura politica, nel principio che il terrorista o presunto tale è meglio morto che vivo.

   Il capo delle IDF Gadi Eisenkot ha criticato gli sforzi per raffigurare Elor Azaria, come un “ragazzino confuso”, dicendo che un tale approccio sminuisce l’esercito. Le IDF si fanno vanto di avere uno dei maggior standard etici delle Forze armate nel mondo. Noi, ha spiegato Eisenkot, “chiediamo che i nostri soldati seguano i valori delle IDF: per difendere il paese con fedeltà e amore, trattare le persone con rispetto e a perseverare nella missione. Questi non sono solo slogan, ma i nostri valori per preservare la forza e la giustezza delle IDF”.

   Stamattina il giudice, il colonnello Maya Heller, ha respinto sistematicamente tutti i punti di difesa di Azaria. La presidente del collegio giudicante ha ritenuto che il palestinese già ferito è stato ucciso “inutilmente” e Azaria è stato ritenuto colpevole di omicidio colposo. La sentenza definitiva sarà pronunciata dalla stessa Corte militare di Jaffa entro quattro settimane e potrebbe condannare il giovane militare di leva a venti anni di carcere. Adesso, se come dice il ministro Naftali Bennett “Azaria non deve fare un solo giorno di prigione”, resta solo la grazia presidenziale. Il problema approderà dunque presto sulla scrivania del presidente Reuven Rivlin, un rispettato avvocato della destra liberista e garantista. Ma sono in molti adesso a chiedersi se saprà resistere alle pressioni del premier Benjamin Netanyahu.

Netanyahu, Obama e la 2334

Per il primo ministro Benjamin Netanyahu la posizione di Israele nel mondo è eccezionale e presto diventerà ancora migliore. E’ questa la convinzione che si nasconde dietro la serie di passaggi punitivi e drammatici che ha preso contro i 14 Paesi che hanno approvato la risoluzione contro gli insediamenti e l’occupazione di Gerusalemme Est, e chi come gli Stati Uniti a quel voto si è astenuto.

   Il voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 23 dicembre che ha condannato la colonizzazione di Israele è stato il terzo clamoroso schiaffo per Netanyahu. Ma questa volta la reazione del premier israeliano è stata feroce. Ha convocato gli ambasciatori dei 14 Paesi il giorno di Natale (pensate se un ambasciatore israeliano venisse convocato il giorno di Yom Kippur quali polemiche ne scaturirebbero). Ha annullato aiuti, cancellato inviti e visite, ha rifiutato di incontrarsi con i leader di Cina e Gran Bretagna. Poi non pago di aver personalmente espresso la sua opinione al telefono all’ambasciatore Usa a Tel Aviv, ha accusato il presidente Obama di collusione e tradimento.

    Non è stata una reazione a caldo. Lo scorso week end in una riunione con suoi fedelissimi Netanyahu non ha smesso questi toni estremi e ha annunciato che Israele è all’inizio di un grande cambiamento. Il voto al Consiglio di sicurezza “dimostrerà di essere la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, anzi è stato il punto di svolta che in realtà accelererà l’ascesa trionfale di Israele. E’ stato – ha spiegato – il canto del cigno del Vecchio Mondo che è prevenuto contro Israele. Ma ,“amici miei, stiamo entrando in una nuova era”. E in questo Nuovo Mondo tutte le nazioni avranno bisogno di ciò che solo lo Stato ebraico può offrire. Non è una minaccia di violenze. Piuttosto il modo di Netanyahu di avvertire le nazioni del mondo che non potranno più beneficiare di innovazioni dell’hi-tech israeliano così come delle sue competenze nella lotta al terrorismo e altre materie vitali nel mondo moderno – sui quali lo Stato ebraico non ha eguali –  se non cambiano il loro modello di voto su Israele.

Molti in Israele sostengono che la reazione di Netanyahu al voto dell’Onu sia stata sproporzionata. I meglio informati sostengono che la risposta di “King Bibi” è stata volutamente esagerata per mantenere le conseguenze del voto Onu in prima pagina e distogliere così l’attenzione dagli sviluppi di una indagine per corruzione, tangenti e truffa aggravata che lo vede direttamente coinvolto.

   Ma chi ha familiarità con Netanyahu conosce il posto che lui vede per Israele nel XXI° secolo e sa che queste manovre non sono destinate a oscurare i titoli dei giornali per un paio di giorni, ma sono parte integrante della sua politica estera. E’ certo che l’assistenza tecnica e di intelligence  sia più importante per il mondo che non la soluzione del problema palestinese. Ma sente anche che questo cambiamento non sarà rapido. E allora perché si scaglia così violentemente contro il presidente Obama che nelle sue ultime settimane di mandato potrebbe causare molti altri “danni ancora”? 

   Una parte della risposta è nella totale fiducia di Netanyahu nella posizione pro-Israele di Donald Trump. Per la prima volta, nei suoi diversi incarichi da premier, si trova a lavorare con un presidente repubblicano, che continua a ripetere che trasferirà l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, che ha nominato ebrei ortodossi che sostengono gli insediamenti in Cisgiordania, in posizioni chiave nei negoziati per il processo di pace. L’altra parte della risposta ha a che fare con il mantra di Netanyahu: Israele deve proiettare potenza e forza anche quando ha perso la battaglia.

  Ben presto saremo in grado di vedere se la profezia del premier su una nuova era fiorente di legami fra Israele e il resto del mondo si sta avverando. O se Israele, spinto in questa posizione innaturale nel confronto con gli altri Paesi, è destinato al crescente isolamento internazionale.